La scienza racchiude tutto?

SOLO LA SCIENZA HA DIGNITA' RAZIONALE NELL'AFFRONTO DELLA REALTA'?

     Parte della cultura di oggi ci vuol far credere che solo l’approccio scientifico nel senso di misurabile, riconducibile a un qualche nostro schema della realtà matematizzata è legittimo. Vediamo cosa dicono Wittgenstein, Planck, Agazzi e Rubbia a tal proposito.

     «Noi sentiamo che, anche una volta che tutte le proposizioni e domande scientifiche hanno avuto una risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppure sfiorati».

(LUDWIG WlTTGENSTEIN, Tractatus logico-philosophicus, Einaudi, Torino 1983).

UN PUNTO OLTRE IL QUALE LA SCIENZA NON PUÒ ANDARE
     Fino a questo punto siamo stati guidati da considerazioni puramente scientifiche, ma ora queste cominciano a non servirci più. È infatti chiaro che la legge causale non può esserci di guida per il sentiero della nostra vita, perché mediante considerazioni di carattere causale non potremo mai giungere a renderci logicamente conto dei motivi delle nostre azioni future. Ma l'uomo ha bisogno di princìpi per decidere ciò che deve fare e ciò che non deve fare, ne ha un bisogno assai più urgente che non della conoscenza scientifica. Un'unica azione è talora per lui più importante che non tutta la scienza del mondo presa insieme.

     Perciò è costretto, giunto a questo punto, a cercarsi un'altra guida, e non la trova se non mettendo al posto della legge causale la legge morale, il dovere etico, l'imperativo categorico, sostituendo all'intelligenza il carattere, alla conoscenza scientifica la fede religiosa. Qui lo sguardo può spaziare liberamente e l'uomo che pensa e che lotta vede aprirsi dinanzi una quantità di ampie visuali e di palpitanti questioni.

(MAX PLANCK, La conoscenza del mondo fisico, Boringhieri, Torino 1964).

     …. Con ciò il realista non materialista continua a ritenere che, in questa impresa, partirà sempre dall'esperienza e ne tenterà la mediazione col ricorso al logo (come si fa nella scienza), senza però presupporre che in ogni caso tutti i concetti che usa abbiano esclusivamente portata empirica e che i risultati cui potrebbe mettere capo siano sempre empiricamente verificabili. Come ciò possa accadere l'ho esposto in alcuni scritti che non è qui il caso di riassumere. Se questa impresa (come io ritengo) approda a riconoscere che l'intero non coincide con l'intero dell'esperienza, il realista si riconosce anche « metafisico », nel senso corretto che ho già avuto l'occasione di schizzare.

     La dimensione metafisica sta dentro la realtà e ne costituisce l'aspetto o il livello complementare rispetto alla materia. Non accetto neppure che l'ammissione di un orizzonte metaempirico si fondi su una semplice esigenza di ristabilire la giustizia violata nella « vita terrena»: per quanto questo argomento di natura morale abbia rivelato una sua forza da Piatone a Kant, esso non è sufficiente per fondare teoreticamente l'affermazione dell'orizzonte metafisico.

     L'affermazione dell'esistenza di una vita ultraterrena esige un nuovo « teorema metafisico », di dimostrazione assai più complessa e incerta della dimostrazione dell'esistenza di un livello di trascendenza nel reale. Voglio tuttavia prendere spunto proprio dall'argomento morale per indicare come esso, pur non conducendo ipso facto all'affermazione della vita ultraterrena, offra elementi seri per capire che l'intero non è riducibile all'intero dell'esperienza materiale. Non si tratta dunque di riequilibrare le sorti della giustizia lesa e sconfitta nella vita ordinaria, e neppure di offrire all'uomo un conforto ingannevole. Si tratta piuttosto del fatto che, nel riconoscere che una certa azione è giusta o ingiusta, l'uomo ricorre a categorie concettuali non riducibili alla pura empiria. Questo giudizio di valore (come vari altri) non è giustificato da alcuna ispezione dell'esperienza (fisica, sociale, storica), da alcuna descrizione di ciò che accade, perché tali descrizioni ci dicono sempre e soltanto ciò che è e mai ciò che deve essere. Siamo di fronte a qualcosa che ci permette di giudicare la realtà empirica e non è suggerito dalla medesima. In base alla costatazione empirica riscontriamo il tradimento o la lealtà e (come già notava il Callide platonico: cf Gorgia, 482d-486d) vediamo che il primo è di gran lunga più capace di assicurare il successo che non la seconda. La storia può darci esempi di approvazione o di condanna, di successo o di insuccesso di certi comportamenti, ma non ci dice perché si debba approvare piuttosto che condannare, perché il successo non legittimi moralmente l'atto sleale o il tradimento. Tuttavia sappiamo che ogni uomo, in base alla propria coscienza, giudica il bene e il male indipendentemente dall'approvazione altrui e dal successo pratico, utilizzando un riferimento essenziale a una sfera non-empirica (quella appunto del dover-essere).

      Non è forse questo un fatto (anzi una vera legione di fatti?) Come si spiega allora se non si riconosce una forma di realtà a questa dimensione metempirica? So benissimo che le filosofie materialiste hanno da secoli tentato di dare risposte a questi problemi, ma è proprio l'estrema approssimatività e la dogmaticità di queste che le ha lasciate troppo al di sotto del compito.

     Non vorrei tuttavia dare l'impressione che il filosofo metafisico possa baldanzosamente avanzare, armato soltanto di empiria e logo, a squadernare il panorama di questa realtà. Attraverso un argomento rigoroso strettamente razionale l'uomo può solo avanzare di qualche passo nell'accostamento a questo livello, può solo stabilire qualche piccolo risultato, però sufficiente a creare lo « spazio concettuale » entro cui possono ricevere legittimità di espressione altre forme di conoscenza non legate alla semplice descrizione e analisi dell'esperienza, e queste forme di conoscenza non possono svilupparsi che attraverso una lunga consuetudine con gli ambiti in questione.

     Come si è prima riconosciuto, molto appropriatamente, che un uomo intelligente, ma privo di conoscenze scientifiche, se entra in un laboratorio non riesce a utilizzare gli strumenti, a leggere le loro indicazioni, a comprendere il significato degli esperimenti, così dobbiamo ora riconoscere, analogamente, che una persona intelligente, ma priva di consuetudine con questi problemi, non «vede» certe cose. Il senso dei valori, il senso della trascendenza, il senso del divino, sono dimensioni a cui tutti siamo aperti in varia misura, ma che non tutti frequentiamo allo stesso modo. È facile incontrare persone umili e semplicissime dotate di un senso morale cristallino, che vedono con chiarezza ciò che non di rado una persona intelligente e dalle molte letture non è invece più in grado di vedere. Oppure ci può essere una persona come san Francesco, che ha la percezione del trascendente con evidenza e una forza capaci di convertire migliaia di persone, perché queste avvertono che quell'individuo ha visto giusto, mentre lo studioso totalmente assorbito nelle matematiche o nella fisica può diventare del tutto sordo a certi discorsi, esattamente come nel caso di una persona che non apprezza la musica.

     Quante sono le strade mediante le quali l'uomo si affaccia sulla realtà? Pongo questa domanda lasciando intenzionalmente da parte la questione della rivelazione, che sarebbe troppo complessa. Ciascuno di noi ha comunque la consapevolezza che soltanto attraverso una certa frequentazione si possono cogliere certe cose, comprenderle pienamente. È per questo motivo che, per esempio, buona parte del pensiero orientale passa attraverso la forma della meditazione. In definitiva, ritengo che il non essere materialisti corrisponda a un atteggiamento metodologico di non chiusura, di rispetto per la complessità del reale e delle varie forme in cui l'uomo si apre ad esso.

     Volendo andare più in là, si potrebbe addirittura affermare che la stessa nozione di esperienza non può essere arbitrariamente ristretta: quando si parla di esperienza estetica, di esperienza morale, di esperienza religiosa, si allude a quella stessa presenza di un « dato » non posto da noi che si riscontra anche nell'esperienza sensibile anche perché quest'ultima è ben lungi dal comportare quella passività che i vari empiristi, e lo stesso Kant, affermavano.

      In conclusione, mi sembra che non si possa negare che nell'uomo è presente una scintilla diversa rispetto a quanto si riscontra negli altri esseri di natura, e proprio qualitativamente diversa, per cui, mentre ritengo che si possa e in un certo senso si debba essere materialisti nell'esplorare le dimensioni naturalistiche dell'uomo, ritengo che occorra attrezzarsi di altre ottiche, non più materialiste, per comprendere senza mistificarli questi aspetti dell'uomo che trascendono la materialità. La ragione per cui mi sento intellettualmente più soddisfatto in questa posizione è in fondo la seguente: tutto quanto il materialista è capace di dire, di comprendere e di spiegare, posso dirlo, comprenderlo, spiegarlo anch'io dal mio punto di vista, mentre mi pare che la mia prospettiva mi consenta di cogliere aspetti del reale che sfuggono completamente al materialista.

(E. Agazzi in ”Filosofia, scienza e verità” Milano 1989; Ed Rusconi)

DA UN'INTERVISTA A CARLO RUBBIA, NOBEL PER LA FISICA
     La più grande forma di libertà è quella di potersi domandare da dove veniamo o dove andiamo. La libertà ti permette di porgere a te stesso la domanda in modo onesto e chiaro, ma calmo e sereno, in quanto non si tratta di una domanda di emergenza. Non ha niente a che fare con quelle procedure d'urgenza che devi "sbrigare in caso di". È troppo bella e profonda, per essere turbata da interessi immediati.

     Il problema è iscritto nel nostro bagaglio intellettuale, che lo vogliamo o no. Non esiste forma di vita umana che non si sia posta questa domanda. E non c'è forma di società umana che non abbia cercato in qualche modo di darvi una risposta. Il mancare a questo appuntamento è una perdita, una disumanizzazione, un meccanismo interno di autopunizione.

     Quello che impressiona di più, della domanda, è la sua universalità. È comune a tutti. Metti in questa stanza dieci uomini che non si conoscono, di cultura, religione, età, storie diverse. Mettine cento in una piazza. Mille in un paese. Milioni in una città. Miliardi. Che cos'hanno, in comune, se non questa domanda? Tutti se la pongono, o se la porranno. Tutti cercano una risposta. E le risposte saranno dieci, saranno cento, saranno mille, o milioni: una diversa dall'altra. Ciò che conta, in fondo, è la domanda comune, più che la risposta. La risposta, conta poco. Anche perché sappiamo benissimo che, questa risposta, non la conosceremo mai».

     Se la risposta giusta non la sapremo mai, e proprio qui, in questo mistero, sta tutto il suo fascino, tante saranno le risposte degli uomini. «Tante quanti sono gli uomini sulla terra. Per ciascuno di noi, la risposta che diamo sarà quella giusta. Non vedo perché una risposta A sia meglio o peggio di una risposta B. Non riesco a discernere. Credo che tutto ciò faccia parte di un nostro bagaglio etico, e penso che quello che conta sia il rispetto del nostro umanesimo, del nostro essere uomini. E poiché tutti noi pensiamo che il nostro essere uomini sia qualcosa che ci mette al di sopra di tutti gli altri esseri viventi sulla terra, per forza dobbiamo anche pensare che siamo stati fatti a immagine di qualcosa di ancora più importante di noi. È difficile non crederci, quasi impossibile. È addirittura inevitabile. Talmente inevitabile che penso sia scritto dentro di noi.

     Non vedo come non si possa dire di sì all'esistenza di qualcosa di aggiuntivo. Io sono un ottimista, mi è facile credere a questo. Tra l'altro, non bisogna solo essere ottimisti, basta essere dei buoni osservatori. Come diceva anche Einstein, Dio è distribuito nella natura. È davvero così, ne sono più che certo. La natura è costruita in maniera tale che non c'è dubbio che sia costruita così per un caso. Più uno studia i fenomeni della natura, più si convince profondamente di ciò. Esistono delle leggi naturali di una profondità e di una bellezza incredibili. Non si può pensare che tutto ciò si riduca a un accumulo di molecole. Lo scienziato in particolare, riconosce fondamentalmente l'esistenza di una legge che trascende, qualcosa che è al di fuori e che è immanente al meccanismo naturale. Riconosce che questo "qualcosa" ne è la causa, che tira le file del sistema».

     «È un "qualcosa" che ci sfugge», continua Rubbia appassionato. «Più ci guardi dentro, più capisci che non ha a che fare col caso. Io porto spesso l'esempio di quella sorta di misticismo che ti prende in una notte piena di stelle. Lo stesso meccanismo di meraviglia, direi quasi di religiosità, ti prende quando, anziché guardare le stelle da lontano, le osservi dall'interno. Quello stesso sentimento che provi guardando da lontano le stelle, si amplifica, si concretizza ancora di più. Il sentimento che prova un profano assistendo a un fenomeno naturale grandioso come un cielo pieno di stelle, un tramonto, l'immensità del mare, per uno scienziato è ancora più grande, in quanto respira qualcosa di veramente perfetto nella sua struttura. Questa perfezione esiste, è nella profondità delle cose. Non è un'ombra, non è un'apparenza».

     È un momento di assoluta poesia. Rubbia non è uomo da facili commozioni, da intenerimenti banali. Eppure ogni sua parola, il lampo dei suoi occhi azzurri, la chiarità del suo viso, persino il movimento delle mani, tutto quanto di lui esprime incanto, stupore. « L'uomo di scienza osserva la natura nella sua forma più perfetta, e deve farlo con intelligenza, modestia, bontà. Deve farsi piccolo piccolo, come quando guardi un animale selvaggio muoversi libero e felice nella foresta. Io mi sento profondamente onorato di potervi assistere, di poter capire. Lo scienziato può osservare e apprezzare qualcosa di sublime. E non lo registra solo per sé. Ha il dovere di trasmetterlo a tutta la gente del mondo».

     Una pausa, soltanto un attimo per concludere: «Quindi, non esiste antitesi, fra natura e uomo. La natura con la sua perfezione, ti fa arrivare a pensare che non c'è "caso". Lo scienziato osserva le leggi fisiche, le leggi della natura, e trova che sono immutabili nello spazio e nel tempo. Il più lontano possibile da noi, nello spazio e nel tempo, tutto si svolge come ciò che si svolge sotto i nostri occhi. Non puoi pretendere che queste leggi siano uniche, immutabili, esatte, e perfette, e non pensare che dietro questo meccanismo di immutabilità e perfezione ci sia qualcosa che ne garantisce la stabilità. Ordine e stabilità nelle leggi naturali non possono essere arbitrarie. C'è qualcuno che fa sì che queste continuità siano assicurate. Se osservi tutto ciò, non puoi che concludere che, in qualche modo, ci deve essere un meccanismo, un qualcosa di superiore, di trascendente».

(In EDGARDA FERRI, La tentazione di credere. Inchiesta sulla fede, Rizzoli, Milano 1987, pp. 205-207)

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