"La strada della scienza e le vie verso Dio" di S. Jacki
- Recensione -

     La nostra cultura è la prima che «cerca di sopravvivere senza religione». Così osservava Andre Malraux in "La tentation de l'Occident"; e non è molto difficile raccogliere la documentazione di simile tentativo sia a livello di vita quotidiana che nelle grandi sintesi culturali, come pure in quella inesorabile fabbrica del consenso che sono oggi i mass-media.

     Ma una civiltà non si può reggere senza delle strutture portanti valide e, se non sarà la religione, si dovrà trovare qualche convincente alternativa.

     Da due secoli c'è un candidato che, pur con alti e bassi, mostra di poter assumere il ruolo di leader della nuova umanità: è la scienza, strumento potente di conoscenza della natura ma anche di manipolazione e dominio. Certo, oggi è difficile trovare dichiarazioni programmatiche del tipo di quelle di Comte e, viceversa, sono frequenti le critiche alla scienza, vista come responsabile di attentati contro l'umanità (dalla minaccia ecologica al rischio nucleare).

     Tuttavia, al fondo di tali critiche, laddove sia assente una visione religiosa dell'esistenza, resta inalterata la pretesa che stava alla base dell'ottimismo positivista: quella cioè di una capacità autonoma dell'uomo di penetrare tutta la realtà e di indirizzare le sorti della storia e del cosmo.

     Se non saranno più le scienze fisiche (appesantite dall'eredità di Hiroshima), saranno quelle biomediche, o quelle sociali, a prendere la guida dell'inarrestabile cammino del progresso.

     Nessun serio pretendente al ruolo di avanguardia del « mondo nuovo » può permettersi di rinunciare al prestigioso titolo di « scientifico ».

IL SUPERAMENTO DI UN DIFFUSO LUOGO COMUNE
     Sotto qualunque veste si presenti, la scienza non può tuttavia eludere totalmente un interrogativo decisivo: l'uomo può fare a meno della religione?

     Se esaminiamo attentamente la storia, con occhi liberi da pregiudiziali antimetafisiche, dobbiamo rispondere «no». È questa la tesi dimostrata con precisione e abbondanza di particolari da Stanley Jaki nel suo celebre "La strada della scienza e le vie verso Dio", tradotto in italiano a dieci anni dalla pubblicazione americana.

     Jaki è un benedettino di origine ungherese, docente all'Università del New Jersey e riconosciuto come uno dei massimi storici della scienza viventi. Per lui, «la strada della scienza porta logicamente, sia dal punto di vista storico che da quello filosofico, alle vie a Dio». Ed è soprattutto sulle origini della scienza moderna che vale la pena soffermarsi per comprendere più in profondità le problematiche della stessa scienza attuale.

     Il luogo comune più diffuso vuole che la scienza sia nata in contrapposizione all'oscurantismo e al dogmatismo della cristianità medioevale, la quale avrebbe costituito una sorta di freno allo sviluppo del libero pensiero e della creatività umana. Si tratta di un'opinione spesso acriticamente assunta anche da celebri scienziati e che rivela una grave lacuna di tipo storiografico; la stessa che ha fatto incappare in una imperdonabile gaffe uno dei maggiori filosofi della scienza del nostro secolo, K. Popper: scorrendo gli indici dei suoi saggi si vedono censurati drasticamente 15 secoli di storia del pensiero, come se da Aristotele a san Tommaso non fosse accaduto proprio nulla.

     La censura nei confronti delle origini della scienza non è un difetto che può soltanto incrinare il buon nome di qualche storiografo e dei soliti eruditi: «lo stesso disinteresse nei confronti dell'epistemologia, che ha impedito di valutare con attenzione le caratteristiche dell'origine della scienza, ha precluso anche la corretta comprensione delle due grandi fasi della scienza moderna: quella newtoniana e quella einsteiniana». L'analisi di tali fasi rivela infatti come questi due grandi fisici fossero «imbevuti di un'epistemologia affine a quella che deriva dalla teologia naturale di san Tommaso.

L'ANALISI STORICA DI STANLEY JAKI
     Veniamo allora alle argomentazioni di Jaki. C'è un interrogativo cruciale cui solitamente non si danno risposte soddisfacenti: « come mai le grandi civiltà non-cristiane non sono riuscite a far sorgere la scienza moderna?».

     Passandole in rassegna una ad una, il nostro autore svela come in tutti i casi ci sia stato un motivo di natura teologica; ogni volta, dopo i lampi di inizi promettenti, le vie della scienza antica hanno finito per smarrirsi in insormontabili vicoli ciechi. Prendiamo la Cina. L'indiscutibile genialità tecnica che ha consentito di realizzare opere straordinarie, come pure la precisione e la pazienza di tanti astronomi e geografi, non ha condotto alla elaborazione di alcun impianto metodologico né di un «corpus» di conoscenze sistematiche. Anche uno studioso marxista come J. Needham (suo è il monumentale saggio Scienza e civiltà in Cina, Einaudi, Torino 1983) deve riconoscere la causa teologica del clamoroso fallimento: la mancanza cioè della fede in un legislatore razionale, creatore buono di tutto il cosmo.

     Una difficoltà analoga ha bloccato lo sviluppo scientifico in India. I grandi scenari cosmogonici dei Veda, delle Upanishad e dei Purana sfociano in una concezione della natura come «una maledizione spaventosa» che rende vani i tentativi di interpretazione razionale e costruzione teorica.

     La tematica che, secondo Jaki, accomuna nell'insuccesso scientifico questi popoli con le grandi culture delle piramidi (Egizi, Babilonesi e Maya) è da rintracciare nell'idea dell'«eterno ritorno», che imbriglia la realtà negli inesorabili ritmi di una ciclicità senza sbocchi e senza aperture al «nuovo» e al «possibile». Ad essa si contrappone l'immagine cristiana di esistenza come «svolgimento lineare» a partire da un atto creativo iniziale che spalanca orizzonti sconfinati di conoscenza.

     Un discorso a sé merita la vicenda greca. Anche qui lo storico benedettino è provocatorio: il genio greco ha aperto molte vie che però si sono tutte arenate in altrettanti vicoli ciechi. La ragione va ripescata ancora una volta a livello religioso: di fronte all'interrogativo giustamente posto sui fondamenti dell'intelligibilità, la non accettazione del trascendente ha rappresentato uno scoglio invalicabile. Fino a concludersi con quella «crisi di nervi» che ha colpito la cultura ellenistica tra il 300 a.C. e il 100 d.C. e della quale risulta storicamente impossibile colpevolizzare il nascente cristianesimo.

     Eppure i greci erano arrivati molto vicini alla meta: erano profondamente consapevoli della razionalità della natura e per primi «costruirono vie formali al fondamento dell'essere». Aristotele poi intuì un aspetto essenziale della contingenza delle cose, espresso nella dichiarazione che «non tutto ciò che è possibile esiste effettivamente». È mancata loro la decisione di andare «un passo oltre i primi cieli fino ad un primo mobile assolutamente superiore ad essi». Aristotele, nell'acuto giudizio di Jaki, come uomo religioso era «incapace di spingersi anche solo fin dove arrivava come filosofo».

     Resta da aggiungere un'osservazione sull'Islam. La sua incidenza sulla storia della scienza non è per nulla trascurabile: furono gli Arabi a trasmettere nell'occidente i contenuti della speculazione scientifica greca; inoltre importarono dall'India quell'idea così feconda che è il sistema di numerazione posizionale. Non hanno però compiuto alcun passo significativo oltre i Greci, e il motivo è da ricercare nel particolare teismo del Corano; anche il concetto di creazione, che li ha portati a criticare Aristotele, era inserito in una visione deterministica al cui superamento soltanto si può associare il decollo della scienza sperimentale moderna. Un decollo maturato a seguito della diffusione ampia e duratura in tutta la popolazione «di un corpus dottrinale ben preciso che riferiva l'universo ad una intellegibilità universale e assoluta, concretizzata nel dogma di un Dio personale, Creatore di tutto». Fu così che i passi verso Dio divennero anche «gradini verso la scienza».

     È arduo, per ogni buon storico, spiegare fenomeni culturali come un Copernico, un Keplero, un Galileo, un Newton, richiamandosi soltanto all'eredità greca: l'idea di una natura conoscibile, di un universo come insieme di enti contingenti ma razionalmente coerenti, sono il substrato dell'epistemologia di un san Tommaso ma rappresentano una base necessaria per erigere l'edificio del sapere scientifico. E sono idee radicate nella convinzione del teismo cristiano che vede nella natura la testimonianza di un'intelligibilità derivata da una fonte trascendente; una convinzione, sostiene Jaki, che non poteva nascere da Piatone, né da Aristotele, da Guglielmo d'Occam e neppure da Archimede.

     L'imponente sforzo dei teologi medioevali di mostrare come la ragione possa far luce sull'esistenza di Dio (sforzo esplicitato nelle famose «prove»), ha prodotto un'eredità epistemologica che ha continuato a fruttare per tre secoli. Un nesso, quello tra teologia e scienza, particolarmente evidente nei tre grandi paradigmi (per dirla con epistemologi più in vista) della scienza seicentesca: l'empirismo baconiano, il razionalismo cartesiano e il newtonianesimo.

     In tal modo Jaki non fa che ristabilire i contorni corretti di una vicenda storica spesso mistificata; nel farlo si trova in buona compagnia: le sue tesi infatti rilanciano e precisano dei messaggi già contenuti nei lavori del celebre storico Alistar Crombie e del grande matematico Alfred N. Whitehead. Il primo, ad esempio, aveva chiaramente individuato nella visione agostiniana le basi per poter concepire il concetto stesso di progresso e di progresso delle conoscenze. Il secondo, senza mezzi termini, aveva sostenuto che la fiducia nella «possibilità della scienza» era nata prima del «secolo del genio» (il 1600) ed era un derivato della teologia medioevale.

Tratto da “Uomo di scienza uomo di fede” du M. Gargantini Ed. ELLE DI CI 1991

QUALE FONDAMENTO PER LA LIBERTÀ E LA RESPONSABILITÀ DELLA SCIENZA?
           C'è un ulteriore motivo di interesse per gli studi sull'origine della scienza ed è da collocare nel vivo del dibattito contemporaneo. Oggi, di fronte agli scenari presenti e futuri delle scienze e delle loro possibili applicazioni, più che mai diventa centrale la questione etica.

     Nell'epoca delle manipolazioni genetiche, del nucleare e dell'intelligenza artificiale, o l'umanità trova validi fondamenti per garantire libertà e responsabilità della ricerca scientifica, oppure non sarà esagerato parlare di prospettive catastrofiche. Nel libro di Jaki c'è un capitolo dedicato all'ethos della scienza; in questa sede ci interessa estrarne il riferimento alla genesi del pensiero scientifico.

     Se la strada della scienza fosse determinata dall'eredità genetica, dagli strumenti di produzione o dal condizionamento culturale, certo dovremmo essere preoccupati: c'è il rischio di una riduzione della scienza a pura tecnologia, a quel procedere «in modo largamente funzionalistico » denunciato anche da Giovanni Paolo II nel già citato discorso di Colonia. È il rischio corso da una società apparentemente «aperta», in realtà soltanto bassamente pragmatica, intrisa di quello spirito democriteo che non è lontano dallo scetticismo e dall'agnosticismo.

     Ma la scienza non è nata nell'ambiente culturale dell'etica democritea: «non fu la società aperta dei greci a vedersi aprire la strada della scienza». La scienza ha richiesto una cultura permeata dalla coscienza dei limiti trascendentali della libertà e della responsabilità, dove le scoperte scientifiche erano il manifestarsi di un disegno superiore e le applicazioni tecniche erano servizio e contributo umile allo svolgersi di tale disegno.

     Anche se non lo dichiarano facilmente, molti scienziati di oggi sentono profondamente la nostalgia di un contesto del genere, che sostenga adeguatamente quella responsabilità che tutti da loro esigono.

IL DOGMA DI DIO CREATORE E L'ASCESA DELLA SCIENZA
     Del vecchio cliché che vede le plebi cristiane distruggere il Museo di Alessandria, un'impresa ripetuta stranamente duecento anni dopo dai conquistatori musulmani, non val neppure la pena di discutere. Non altrettanto ovvia è invece la falsità delle osservazioni che contrappongono l'originaria fiducia in se stessi connaturata nello spirito greco con la tendenza a rifugiarsi in prospettive ultraterrene e religiose del periodo ellenistico. Ciò nonostante un attimo di riflessione rivelerebbe che il cristianesimo non può certo essere considerato responsabile della «crisi di nervi» che colpì i greci se è vero, come è vero, che questa si verificò nel periodo compreso tra il 300 a.C. e il 100 d.C. Eppure non è forse al cristianesimo che allude una descrizione di quella crisi che cita «un aumento dell'ascetismo... una perdita di speranze in questa vita... un'acuta necessità di una rivelazione infallibile... una conversione dell'anima a Dio»? Un po' più esplicita è l'accusa contenuta nell'osservazione di Sir Thomas Heath, il famoso storico della matematica e dell'astronomia greca, che attribuì la creatività scientifica dei greci al fatto che « non erano irretiti da alcuna Bibbia» né dal «clero organizzato». Verrebbe spontaneo augurarsi che si fosse ricordato di Paul Tannery, il suo grande maestro di storia della geometria greca, che aveva una spiegazione molto diversa. Tannery, che Sarton definì un giorno «il ricercatore che merita forse più di ogni altro il nome di padre dei nostri studi», indicava invece come responsabile il dominio nel pensiero ellenistico della filosofia stoica che, per il suo carattere fondamentalmente utilitaristico, era ostile alla scienza.

     L'ascesa dello stoicismo segna l'esaurimento di una fiamma di creatività che aveva bruciato solo per poche generazioni; la sua breve durata è forse uno degli avvenimenti che generano più interesse e rimpianto assieme in tutta la storia intellettuale. Gli antichi greci si avvicinarono più di ogni altra cultura alla formulazione di una scienza praticabile e, anche se non riuscirono, fornirono qualche giustificazione per l'affermazione secondo la quale «pensare al mondo alla maniera greca» è una « descrizione adeguata della scienza». La loro visione di una scienza fattibile fu fuggevole come quella dell'Atto uno, eterno, infinito e assoluto: appena elevatasi a tali altezze, la mente umana crollò di nuovo su se stessa. In confronto a quelle di altre culture antiche la teologia naturale prodotta dai greci dovrebbe sembrare letteralmente perfetta, e così pure la loro scienza; come questa, però, anche quella si è fermata subito prima di arrivare al suo vero obiettivo. Fra gli antichi greci le prese di posizione a favore del monoteismo e di una creazione dal nulla erano a dir poco sporadiche, come faville di un fuoco che non si sarebbe mai trasformato in una luce universalmente diffusa. In parte questa interpretazione della vicenda deve essere stata accettata, se un libro sulla razionalità greca di un razionalista si conclude osservando mestamente che, a differenza del cristianesimo, il pensiero greco «non riuscì ad imporre nessun corpus dottrinale (filosofia) a tutta la popolazione». L'ascesa della scienza, come apparve chiaro in seguito, richiese la diffusione ampia e duratura in tutta la popolazione, cioè in una intera cultura, di un corpus dottrinale ben preciso che riferiva l'universo a una intelligibilità universale e assoluta concretizzata nel dogma di un Dio personale, Creatore di tutto.

«INTELLIGIBILITÀ» DEL REALE E «RAGIONEVOLEZZA» DELLA FEDE
     Essere padroni di se stessi è bene, ma trovare se stessi e null'altro al termine della ricerca del fondamento dell'intelligibilità vuol dire praticamente lasciarsi sfuggire questa padronanza, o almeno così sembra voler significare la scienza in uno degli insegnamenti che ci offre la sua storia.

     Nelle grandi culture dell'antichità la scienza non è riuscita a diventare una grande strada senza fine proprio come la ricerca del fondamento dell'intelligibilità, che è poi la ricerca di Dio, non è riuscita a trascendere in modo convincente l'uomo stesso e la sua estrapolazione cosmica, una natura animata e autosufficiente. Tale fondamento è stato collocato saldamente per la prima volta a un livello trascendente sia l'uomo, sia la natura, solo nel medioevo, con un procedimento che creò una nuova matrice culturale. Caratteristica di tale matrice era la convinzione universalmente condivisa che il fondamento dell'intelligibilità, in quanto creatore di tutte le cose visibili ed invisibili, fosse un Ente personale, razionale, provvido, assoluto ed eterno. E di convinzione si trattava, non solo di una moda intellettuale: i suoi più attivi portavoce erano frati mendicanti fautori di una visione evangelica dell'uomo e del mondo, una visione in cui l'ordine, la bellezza e la pace della natura costituivano un fulgido riflesso del Creatore e Padre di tutto.

     Questa visione non era una fantasia sentimentale: dovette dimostrarsi in diversi modi, non ultimo un esame esauriente dei rapporti tra fede soprannaturale da un lato e ragione naturale dall'altro.

     La prima comportava l'accettazione di una lunga serie di fatti storici dalla chiamata di Abramo a quella rivolta in occasione della prima Pentecoste a tutte le nazioni affinché diventassero, attraverso la fede in Cristo, beneficiane del patto di Dio con Abramo.

     Questi fatti storici, e il messaggio che vi si percepiva, erano considerati di origine soprannaturale, l'ingresso nella storia di un Dio trascendente che si identificava con l'esistenza stessa, cioè Colui che È, al quale l'esistenza di tutto ciò che è visibile ed invisibile risulta un dono di liberalità creativa.

     Certo la fede voleva essere un «rationabile obsequium», una prestazione in cui la ragione doveva svolgere il suo ruolo ragionevole: il continuo ricadere di molti degli eletti nell'idolatria e lo zelo delle nazioni pagane nell'adorazione della natura indicavano chiaramente con quanta facilità la ragione potesse essere irragionevole.

     Le pagine del vecchio e del nuovo testamento abbondano di appelli alla ragione, a proposito sia degli interventi miracolosi di Dio nella storia, sia delle indicazioni dell'esistenza di Dio offerte dalla natura. In questi inviti, però, l'accento cade sugli avvenimenti miracolosi della storia della salvazione.

     Questo schema è rimasto quasi invariato per tutto il periodo patristico: gli autori cristiani cominciarono a presentare prove dell'esistenza di Dio non appena iniziarono a rivolgersi alla civiltà pagana dell'impero romano, ma queste prove ebbero sempre un ruolo esclusivamente introduttivo nella loro strategia; la salvezza era possibile solo entrando nel patto mediato da Cristo, nel quale Dio si era pienamente rivelato.

L'APPORTO DELLA TEOLOGIA NATURALE DI SAN TOMMASO ALLO SVILUPPO DELLA SCIENZA
     È facile criticare san Tommaso per la sua evidente mancanza di interesse verso le ricerche empiriche a posteriori; la sua accettazione di quasi tutti gli elementi della scienza aristotelica può sembrare un atteggiamento superficiale, ma non lo è più della visione di favolose invenzioni meccaniche con le quali Bacone sperava di sconfiggere gli infedeli. Tommaso non ha compiuto passi degni di nota sulla strada della scienza, e questo è un fatto, anche se per noi moderni contrasta nettamente con la sua indiscussa genialità.

     Alcuni dei suoi contemporanei erano così profondamente impressionati dal suo acume da vedere in lui un nuovo Mosè, brillante il volto e le parole di una luce che solo la comunicazione con Dio poteva conferire. Questo paragone ci fornisce almeno una spiegazione simbolica del rapporto tra l'aquinate e la scienza, la quale può sembrare sconcertante a quegli storici della scienza che hanno una vaga idea della sua statura filosofica. Non fu cosa da poco guidare, novello Mosè, la mente umana fuori dall'asservimento averroista ad Aristotele correggendo il maestro su almeno tre questioni cruciali: l'esistenza di un Dio trascendente, la creazione dal nulla e la libertà umana basata sull'immortalità dell'anima. A Mosè non fu dato di giungere nella terra promessa; Tommaso non varcò neppure lui la soglia di una scienza migliore di quella aristotelica, ma aprì sicuramente una fase cruciale dell'avanzata verso questa soglia, come provano gli sviluppi futuri e più precisamente le due fasi particolarmente creative della scienza esatta legate in gran parte all'opera di Newton e di Einstein. Come l'analisi di tali fasi rivelerà, infatti, questi pensatori erano imbevuti di un'epistemologia affine a quella che deriva dalla teologia naturale di san Tommaso. Nella seconda fase, quella einsteiniana, una scienza già matura raggiunse inaspettatamente orizzonti molto più ampi; nella prima, newtoniana, la scienza giunse alla maturità facendo valere la propria esplicita diversità rispetto alla teologia naturale e a quella rivelata.

LA STRADA DELLA SCIENZA CONFLUISCE NELLE VIE DI DIO
     Contravvenendo al desiderio degli esistenzialisti, che cercano l'immobilità del momento attuale, la scienza continuerà infatti sulla propria strada coerente e con la sua stessa marcia supererà esistenzialmente il paradosso di Camus analogamente a come è stato risolto uno dei paradossi di Zenone, cioè ambulando. Ma procederà liberamente solo finché si muoverà in modo responsabile, e tanto quella libertà quanto quella responsabilità continueranno ad essere segni, in un modo coerente oltre la scienza, di un regno dove la sua strada confluisce nelle vie a Dio.

     Tale confluenza va riconosciuta e coltivata, altrimenti può darsi che si trasformi in realtà una premonizione tremenda degli esistenzialisti, predicato di un'immagine falsa della scienza alimentata dalla negazione positivista di tutte le questioni dal sentore anche solo metafisico, e tanto più di quelle dal sentore etico. Ma che cos'è più metafisico dell'esistenza stessa e soprattutto di un'esistenza intrisa di responsabilità etica? Un'immagine positivista senz'anima della scienza deve incombere torreggiante come una minaccia all'esistenza stessa, ciò che è particolarmente importante fin da quando abbiamo cominciato a vivere nel decennio di Orwell. Se il mondo rappresentato in 1984 è così spaventoso, ciò avviene per il suo uso completamente non etico della scienza ridotta a tecnologia pura, una riduzione che per la medesima logica porta alla fine della strada della scienza come una fine del discorso sulle vie a Dio. Una riduzione di questo tipo è inevitabile se la strada che la scienza ha percorso è stata ed è determinata davvero dall'eredità genetica, dagli strumenti di produzione e dal condizionamento culturale, ma la comparsa di questa strada, come mostra la storia, non era determinata in anticipo. Anzi, tale strada si è aperta non nell'ambiente culturale dell'etica democritea, della quale si può dire con certezza solo che aveva come sfondo l'incoerenza dei mondi di Democrito; quest'etica poteva produrre solo una «società aperta» che è priva di qualsiasi ritegno e può soltanto dissipare lentamente ma sicuramente il proprio contenuto, come una botte privata dei propri cerchi, un risultato di cui è un esempio valido il lungo declino della cultura greca antica, che all'inizio era parsa tanto promettente per la scienza: non fu la società «aperta» dei greci a vedersi aprire la strada della scienza, un avvenimento simile poteva aver luogo solo in una cultura intrisa di consapevolezza dei confini trascendentali della libertà e della responsabilità etica umane, una cultura che anche oggi l'ethos della scienza approva vigorosamente, anche se inconsapevolmente.

VERITÀ E MORALITÀ NELLO SVILUPPO DELLA SCIENZA
     In effetti sembra che poco impedisca di definire nuova moralità la vecchia immoralità, ma è un fatto che pur se l'immoralità dilagò anche in epoche dichiarate cristiane, almeno in tali periodi non veniva banalizzata sistematicamente nei discorsi, una differenza che anche oggi farebbe una differenza enorme. Ciò vale con intensità particolare proprio per quella scienza della quale parliamo spontaneamente come del fattore che ha reso il nostro mondo diverso da tutti i precedenti, perché è diventato privilegio di questo mondo scientifico anche sentire un Fermi calmare le preoccupazioni sulla costruzione della bomba atomica dichiarando che si trattava solo di «una fisica splendida» e un Oppenheimer affermare che quando si trova qualcosa di «delizioso dal punto di vista tecnico» gli scienziati si limitano ad andare avanti senza badare alle conseguenze.

     Espressioni come «fisica splendida», «progetti deliziosi dal punto di vista tecnico» e simili riflettono non tanto l'immoralità della nostra epoca quanto, ed è peggio, la sua amoralità; ecco perché a uno scienziato moderno può non capitare neppure di sospettare che la verità e la moralità siano profondamente legate.

     Eppure, e la storia della scienza lo mostra fin troppo bene, è stato nell'unione stretta di due umanità, quella sulla verità e l'altra su ciò che è bene dal punto di vista morale, che è nata la scienza; la preoccupazione etica per l'eventuale cattivo uso delle invenzioni scientifiche in Archimede brillava per la propria assenza: se non amava produrre macchine da guerra quali nessuno aveva realizzato prima di lui era solo perché i manufatti erano indegni di un filosofo che tendesse alla contemplazione platonica delle verità geometriche. Ma ciò che non preoccupava Archimede, Ruggero Bacone lo sentiva in modo assai acuto: pur non disdegnando di evocare la visione di veicoli che corressero a grande velocità per terra e sotto i mari, frate Ruggero individuava il beneficio principale della scienza sperimentale nella possibilità di por fine alla guerra quasi senza spargimento di sangue; precursore del pensiero moderno come lo fu Leonardo, non vi adattò la propria coscienza cristiana, e per conseguenza distrusse gli schemi di un dispositivo subacqueo capace, a quanto credeva, di distruggere interi porti di mare. Lo stesso genere di preoccupazione etica è evidente anche in quell'araldo dei tempi moderni che fu Francesco Bacone: entusiasta com'era della nuova scienza, sapeva però che avrebbe potuto «aprire una fontana tale che non è facile distinguere dove quanto ne sgorga e ne fluisce si svolgerà e ricadrà»; ecco perché espresse la speranza che la pratica della scienza nuova fosse «governata dalla ragione valida e dalla religione vera».

TEOLOGIA NATURALE E RICERCA SCIENTIFICA
     Gli scienziati vanno a caccia di un'illusione quando tentano di determinare che il mondo può essere solo quello che è; Eddington, così entusiasta del numero 137 - il reciproco della costante di struttura fine della fisica atomica - da preferire di appendere il proprio soprabito all'attaccapanni con questo numero nei guardaroba, avrebbe potuto forse riuscire ad appendere a tale numero tutta la fisica; ma ciò lo avrebbe lasciato ancora con la differenza enigmatica tra i numeri che sono tanti, anzi infinitamente numerosi, e un universo che è uno di numero per chi coltiva la scienza della natura. Non tocca alla scienza rispondere alla domanda della ragione per cui esiste un universo unico, singolare, eppure si tratta di una domanda da porsi e a cui rispondere se si mira alla completezza per quanto riguarda la comprensione: la risposta, che solo la metafisica, o meglio la teologia naturale, può dare, non «gioverà» naturalmente allo scienziato in un senso limitatamente «scientifico» ma, essendo Dio, rafforzerà notevolmente la fede dello scienziato nell'esistenza di un universo oggettivamente esistente, ordinato razionalmente, che la mente umana può studiare, in una ricerca che è privilegio e responsabilità esclusivi dell'uomo.

     Questa fede, questo privilegio e questa responsabilità costituiscono la spina dorsale dell'impresa scientifica: la scienza è sorta quando tali tre fattori divennero una matrice culturale, e sono solo le sue tecniche teoriche e sperimentali a poter cambiare ed aumentare, mentre l'essenza, il quanto della scienza rappresentato da quei fattori è una conquista cui non si può aggiungere nulla né sottrarre alcunché, senza minare l'impresa scientifica stessa.


Da: STANLEY JAKI, La strada della scienza e le vie verso Dio, Jaca Book, Milano 1988.

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