Contributo di un laico
Intervista a Galimberti su tecnologia e umanesimo

«La tecnica distrugge il tempo dell'anima»
          Galimberti: non ci importa più nulla della bellezza o della verità, ma solo dell'efficacia strumentale. Il filosofo al Festival di Modena: i cristiani hanno dimenticato la necessità di un linguaggio del rito. Nell'affollato vagone del treno che porta da Modena a Carpi (quindici chilometri in tutto) fa caldo, ma non si rinuncia a filosofare. «Professore – chiede una ragazza –, perché lei dice che la tecnica avrebbe deformato il nostro modo di vedere il mondo?».

     Umberto Galimberti, classe 1942, docente di Filosofia della Storia all'Università di Venezia, prende sul serio questa singolare lezione ferroviaria (uno dei tanti appuntamenti del Festivalfilosofia che si è svolto da venerdì a domenica scorsi a Modena, Carpi e Sassuolo): «Perché, per lo strapotere della tecnica il nostro modo di pensare è divenuto un “pensiero calcolante”: non ci importa più nulla della bellezza o della verità delle cose, ci interessa solo l'aspetto dell'“efficacia”, della strumentalità». Il dibattito prosegue mentre ci si avvia, tutti insieme, a piedi, nel centro di Carpi, dove una folla trabocchevole attende la «lezione magistrale» del filosofo. Che si sofferma poi anche con noi, in privato, sulla questione della sua personale «nostalgia antropologica» – così la chiama: «Perché mi pare che gli esseri umani stiano cambiando, si stiano trasformando in qualcos'altro: e di questo passo, temo di non incontrarne più, in un prossimo futuro. Non è una battuta a effetto, la mia è una preoccupazione reale».

     Partiamo dal ruolo della tecnica. Gli antichi greci non ne dicevano tanto male: è la tèchne, affermavano, che permette all'uomo, in mancanza di mezzi naturali di difesa, di sopravvivere all'interno del cosmo.

     «Ma quella dei greci era una tecnica modesta. Essi pensavano che l'ingegno dell'uomo potesse operare molti portenti, ma non imporsi in modo decisivo sulla natura. In una tragedia di Eschilo, Prometeo incatenato , il protagonista è il Titano punito da Zeus per aver sottratto agli dèi il fuoco, donandolo agli uomini: bene, a un certo punto, egli riconosce che la tèchne “è di gran lunga più debole di Anànke ”, la “Necessità”, il destino che regola l'universo e la vita umana».

      Quando è cambiato, allora, il nostro rapporto con la tecnica?

     «Non in un solo istante. Un cambiamento si è avuto con la rivoluzione scientifica del XVI e del XVII secolo. Per Galileo, per Keplero, e poi per Newton, lo scienziato non deve più limitarsi a osservare o a catalogare i fenomeni naturali: deve formulare delle ipotesi, e poi verificarle con degli esperimenti scientifici. Si tratta ora di vedere se il mondo risponda, si conformi alle ideazioni della mente umana. E ai suoi progetti».

      Per questo, Bacone affermava che «alla natura si comanda solo ubbidendole»: si tratta di conoscerne le leggi per dominarla.

     «In seguito, abbiamo un ulteriore salto di qualità. L'idea che ora si afferma, come principio-guida della nostra civiltà occidentale, è: se la tecnica è il mezzo con cui possiamo ottenere tutti i nostri scopi, allora essa è precisamente ciò che tutti desideriamo, costituisce uno scopo in sé. Così, se per i greci essa era una prerogativa dell'uomo, possiamo dire che attualmente il rapporto si è ribaltato: la tecnica è divenuta la sostanza, l'uomo un suo attributo. Mi spiego: oggi, concretamente, nessuno di noi è in grado di comprendere il senso del progresso tecnico, di dire a che cosa esso tenda, di prevedere gli effetti remoti di una certa innovazione tecnologica. Soprattutto, è da ingenui pensare che la tecnica passi, per così dire, sopra le nostre teste, lasciando immutata la nostra qualità umana: che cosa significano i concetti-chiave dell'umanesimo, le parole “libertà”, “responsabilità”, “democrazia” in un'epoca in cui l'uomo è ridotto a un funzionario dell'apparato? Sa che cosa ricordava l'ex poliziotto austriaco Franz Stangl, della sua attività di comandante del campo di sterminio di Treblinka? “Per me era sempre e soltanto un'enorme massa – affermava, riferendosi agli ebrei che aveva inviato al gas –: raramente li vedevo come individui. Credo che inconsciamente cominciai a considerarli come bestiame”. Questo, direi, è l'atteggiamento di un funzionario efficiente, attento a espletare il suo incarico nei tempi e modi prescritti. In un mondo dominato dalla tecnica, in cui la stessa domanda sui fini sembra insensata, ciò che si richiede ai singoli esseri umani non è una particolare creatività, o capacità d'empatia nei confronti del prossimo, ma la “professionalità”, per usare un termine orribile, oggi divenuto sinonimo di virtù».

     Limitandosi a constatare o a descrivere «oggettivamente» questo stato di cose, non si rischia di finire per assecondarlo, in modo fatalistico?


     «La cosa più terribile è che oggi non siamo neppure capaci di un pensiero alternativo rispetto a quello che la tecnica sembra imporci: su questo punto, Heidegger aveva visto benissimo. Io, semplicemente, sento la necessità di descrivere questa situazione, tenendo viva la “nostalgia antropologica” di cui parlavo. La stragrande maggioranza degli esseri umani oggi soffre enormemente, sente di essere stata spossessata della propria esistenza: ma non riesce a tradurre in parole, a condividere questo malessere». Soprattutto, sembra che il nostro «tempo moderno» si sia accorciato e frantumato, rispetto a quello delle società tradizionali. «Ed è vero. Io non sono cristiano, e in generale la categoria della “salvezza” è lontana dalla mia sensibilità: condivido semmai l'idea di tante possibili “salvezze parziali”, provvisorie, entro dei margini che non possiamo valicare, pena la caduta in ciò che i greci chiamavano hybris , “arroganza”. Tuttavia, non posso non riconoscere che proprio il cristianesimo ha conferito alla dimensione temporale un valore fondamentale, come teatro di una vicenda cosmica di caduta e redenzione. Nel tempo, per i cristiani, Dio si rivela e si incarna, al termine del tempo si realizzerà la salvezza, individuale e collettiva. In Agostino abbiamo una formidabile descrizione della temporalità, intesa come il luogo d'incontro privilegiato tra Dio e l'uomo: anzi, Dio, l'anima umana e il tempo costituiscono una sorta di triade, in cui ogni termine sembra rimandare agli altri due. Ma appunto, oggi la tecnica erode le fondamenta del trono di Dio, proprio riducendo la nostra esperienza del tempo: se tutto si risolve nella scelta dei mezzi più idonei in vista di un fine immediato, se le nostre aspettative si estendono su un arco di poche ore o giorni, questo presente assoluto sostituisce l'attesa dell'éschaton , di un compimento definitivo della storia».

      Senza voler battezzare a tutti i costi il suo pensiero: si ha come l'impressione che lei rimpianga la ricchezza dell'antico linguaggio religioso sull'anima.

     «La teologia cristiana ha prodotto immagini potenti per esprimere la nostra dimensione interiore, molto più pregnanti dei termini con cui la psicoanalisi ha poi cercato di descrivere la nostra struttura personale. E credo che, tra le colpe più gravi degli uomini di religione, vi sia quella di aver dimenticato la necessità di un linguaggio del rito, che consenta anche agli uomini contemporanei di condividere le occasioni gioiose e funeste delle vita, di riconoscere ed esprimere i loro sentimenti. Oggi si impara a piangere, ad essere felici, ad amare dalla televisione: ed è come se la nostra anima venisse invasa, riempita dalle immagini del mondo esterno. Diventiamo sempre più enti seriali, dimenticando la nostra individualità. Un antico testo gnostico, il Vangelo di Eva, immaginava che gli uomini, sprofondati nelle tenebre, avessero finito per dimenticare la propria identità; per rimediare, Dio Padre avrebbe inviato loro un “Messaggero di luce”, che li richiamasse alla salvezza. “Ma come potranno ascoltare il mio richiamo e salvarsi – si chiede a un certo punto questo Messaggero –, se neppure ricordano il loro proprio nome?”».

Intervista di G. Brotti a U. Galimberti
L’Eco di Bergamo (21 sett 2004)

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